Ottavio re di Roma
Di Massimo Fabbricini
Ottavio,
un nome da predestinato, verrebbe la voglia di dire. Ottavio re di Roma, sarebbe
dovuto succedere prima o poi, no?
Può essere imbarazzante cercare di raccontare Bianchi, il nostro Ottavio,
sulle pagine di questa rivista, frenati dalla paura di cadere in sospetto
di celebrazione agiografica, ma sarebbe ancora peggio alleggerire i toni,
giocare con le parole, sconfinare in quel campo minato di luoghi comuni, di
banalità, di cose dette tanto per dire e per far sognare che il nostro
personaggio rifiuta come un inferno.
«Persona seria» vorrebbe che si dicesse di lui, punto e basta.
Una persona seria come suo padre, tipografo, gran lavoratore, mica tanto esaltato
dall'idea che suo figlio guadagnasse ben più del pane quotidiano prendendo
a calci un pallone piuttosto che garantendosi un posto sicuro, magari in banca.
Dà proprio l'idea della banca, di quegli istituti con cento anni di
storia alle spalle, una clientela che si può fidare ad occhi chiusi,
la carriera di Ottavio Bianchi. Chi cercava la salvezza, salvezza ha avuto,
chi ha avuto il coraggio di mettergli in mano investimenti importanti è
stato ripagato per i propri sforzi. E se gli chiedi dove ritenga d'aver fatto
meglio nell'arco di tredici anni di lavoro da allenatore, stai pur certo che
non ti sventolerà di getto in faccia lo scudetto, i due secondi posti,
il terzo posto d'acchitto, la Coppa Uefa e la Coppa Italia che costituiscono
il sontuoso bottino del suo quadriennio napoletano, ma certe stagioni addirittura
tranquille che ha saputo regalare all'Aveliino e al Como.
Non ha la pretesa di etichettare con il suo nome nessun gioco. Giura che il
calcio è uno solo, sempre lo stesso, che l'importante è far
andare gambe e cervello all'unisono, è mettere gambe e cervello in
condizione di lavorare sempre al meglio. Tutto qui. E chi non gli crede s'arrangi.
Lui va per la sua strada, giorno dopo giorno, spaccando il secondo, contrabbandando
ai suoi giocatori come semplici consigli verità fondamentali del pallone.
Ogni cosa deve essere fatta sottovoce, deve essere assimilata con naturalezza.
Non si sente il Von Clausewitz che muove le grandi armate e neppure lo stratega
di un manipolo di guerriglieri. Cerca di imporre l'ordine e di lasciar spazio
alla fantasia. Ma le lascia supporre queste cose, non si sente portato per
enunciazioni donchisciottesche.
Ma non sarà forse agiografia questa? Freniamo, freniamo, evitiamo di
indispettirlo, di offendere il suo pudore. Il pudore è una scorza alla
quale tiene più d'ogni altra cosa. È stata sottolineata la sua
eleganza alla Domenica Sportiva, dopo il debutto all'Olimpico con la Fiorentina,
e lui è scattato come una molla. «Macché eleganza, ho
addosso le prime cose che stamattina mi sono capitate in mano...»: ha
cercato di far credere con il suo impeccabile abito scuro di sartoria, la
sua camicia voile del giusto punto d'azzurro, la sua cravatta «ton sur
ton» dal disegno minuto e ricercato. Non è un dandy, ha piuttosto
grande rispetto per gli ambienti che frequenta. È uno dei pochi, forse
l'unico, tra i suoi colleghi ad andare in panchina indossando la tuta sociale,
la stessa dei giocatori, la stessa con la quale sgobba giorno dopo giorno
sul campo. Una divisa uguale per tutti, nel giorno in cui tutti devono essere
esaminati alla stessa maniera.
Accetta
d'essere giudicato, ma nei tempi e nei modi dovuti. Gli piacerebbe ad esempio
essere lasciato in pace quando lavora. Ma riusciranno mai i tifosi a rinunciare
ai loro «sopralluoghi» infrasettimanali senza obbligarlo a vestire
i panni dell'orso poco sensibile all'esuberante passionalità degli
estranei interessati? Riuscirà mai a sottrarsi ad un vero e proprio
interrogatorio se gli scapperà un gesto di insofferenza nel momento
in cui un Voeller declina la comoda responsabilità di battere un rigore
buono per il 3-0 in favore di un Carnevale che smania alla ricerca di un gol?
«lo? Quando mai...»: dice e ripete. E non è -ne siamo certi-
un volersi nascondere dietro un dito. Potrebbe spiegare, ma dovrebbe dire
tante cose, troppe cose per quelle che sono le sue abitudini. Proviamo ad
immaginare: che senso ha lavorare tutta una settimana nel simulare una situazione
e poi comportarsi al momento topico in maniera diversa? Perché correre
il rischio di far gravare il peso di un errore su un giocatore teso soprattutto
alla ricerca della tranquillità? Perché accettare un'affettuosa
insubordinazione a regole che debbono essere valide sempre e per tutti? Nel
suo calcio senza segreti di cui vantarsi, nel suo calcio «full immersion»
le regole sono queste e sono regole che privilegiano la solidarietà.
Ottavio Bianchi e la Roma. Una simpatia che nasce da lontano, ancora prima
dell'ambizione di riprendere la propria carriera (interrotta, anzi congelata
per una stagione, dal crudele e costoso sghiribizzo napoletano) davanti ad
una grande platea, con una società ed una squadra sospinte da grandi
potenzialità e grandi progetti. «Cominciamo da quand'ero calciatore
- ricorda - cinque anni nel Napoli hanno rappresentato il meglio della mia
carriera. La Roma e il Napoli erano sempre lì, dietro le grandi nella
migliore delle ipotesi. Le nostre partite erano comunque importanti, i derby
del sud erano feste. Di un calcio tanto diverso da quello di oggi. Sfilavano
ciucci e bare, tanto sfottò e niente violenza. A Roma salivamo sempre
convinti di far bene, ma non vincevamo mai. Poi una volta il presidente Fiore
prima di una partita entrò negli spogliatoi e regalò a ciascuno
di noi una medaglia d'oro con su impressa l'immagine di un ciuccio che scalciava
due palloni contro l'Olimpico. Non ho mai creduto troppo a queste cose, fatto
sta che segnarono Braca e Sivori... Da allenatore la storia è stata
diversa. La Roma nella prima metà degli anni '80 aveva fatto il gran
salto, non era più solo la squadra della capitale. Nella seconda metà
degli anni '80 il Napoli l'ha imitata. C'erano punti pesantissimi in palio,
non solo quelli per risolvere la nostra "questione meridionale".
Soprattutto per noi. E quello che mi impressionava ogni volta era il pubblico
giallorosso, capace di stare con la sua squadra sempre e comunque. Troppo
facile incitare solo quando si sta dalla parte del più forte. Credo
proprio che sia un dovere ed un piacere mettercerla tutta per meritare un
simile consenso».
Tratto da La Roma settembre 1990
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